Full immersion ad ampio raggio

Gli scavi subacquei, così come gli scavi archeologici in superficie, si basano su un sistema di scavo ispirato al principio dell’unità stratigrafica (US). Nel caso in cui l’area di indagine sia prossima alla riva, il posizionamento di supporti, dispositivi e attrezzature a terra rende più facile il lavoro. Il lavoro in mare aperto richiede un’imbarcazione di appoggio, con ripercussioni anche in termini di costi. In entrambi i casi, trattandosi di una mission delicata, le attività di immersione o pesca sono temporaneamente vietate per mezzo di ordinanza emessa dalla Capitaneria di Porto locale. Non è difficile individuare un sito dove sono in corso scavi subacquei, circondato da un reticolo di tubi di plastica e alluminio. D’altronde, come sanno coloro che vivono il mare, è fondamentale avere elementi di riferimento che – nel caso specifico – consentono di monitorare il lavoro in progress. Nonché materiali e attrezzature finalizzate alla successiva documentazione grafica e fotografica.

Strumenti di scavo

Chiunque evochi lo scavo in superficie, evoca implicitamente pale, secchi e picconi. Quando si parla di scavi subacquei le apparecchiature sono – inevitabilmente – meno scontate. In quasi tutte le campagne archeologiche condotte in ambiente sottomarino, si utilizza un particolare aspiratore dotato di un grosso tubo chiamato sorbona. Si tratta di uno strumento essenziale, fondamentale per aspirare strati di sabbia e fango sotto i quali si celano reperti di vario genere. Si potrebbe definire la sorbona un aspirapolvere subacqueo, dove confluiscono materiali che, se non aspirati, renderebbero impossibile il recupero di reperti. La sorbona ad aria è più utilizzata rispetto a quella in acqua, in grado di risucchiare detriti anche di medie dimensioni. Il vaglio agisce come un vero e proprio setaccio, in grado di filtrare ciò che è stato aspirato, trattenendo piccoli frammenti come cocci o pezzi di vetro che potrebbero avere il valore di un reperto.

 Veri e propri reportage fotografici

I particolari sono importanti, talvolta determinanti per la riuscita di un’operazione. Negli scavi archeologici la zona d’interesse è vasta, per cui è importante documentare ciò che viene alla luce – e spesso si tratta di singoli reperti – in modo da definire la successiva ricostruzione in laboratorio. In aiuto degli addetti ai lavori, intervengono riprese al dettaglio e reportage fotografici in zone contigue secondo modalità ben definite. Prima e dopo aver scattato una foto sott’acqua è importante

  • Mantenere la fotocamera perpendicolare rispetto ai fondali
  • Raddrizzare le immagini per mappare al meglio l’area
  • Creare immagini simili a quadri che, messi insieme, compongono un vero e proprio mosaico

In questo fotomosaico digitale l’archeologo subacqueo indica con colori diversi dati utili, i limiti delle unità stratigrafiche e tutti i reperti sui fondali. Grazie al materiale fotografico e alle immagini di video, sarà più facile passare alla fase successiva

Il rilievo prima del recupero

Negli scavi subacquei esiste un numero – noto come numero di reperto – indispensabile per il tracciamento di ciò che è stato trovato perché possa essere sempre identificabile. Tracciando con una matita a punta morbida la sagoma dei vari materiali recuperati su un foglio di poliestere, gli operatori attribuiscono una determinata posizione nell’area a ciascun reperto. La fase successiva all’identificazione prevede la misurazione della distanza tra il piano orizzontale e lo strato archeologico riportato alla luce. Il rilievo precede il recupero, che conclude lo scavo in ambiente sottomarino, ma non mette fine al lavoro degli archeologi. A questo punto si aprono due strade. Il team valuta il contesto e le circostanze di carattere logistico. Se precarie, potrebbe decidere di documentare e lasciare il reperto sul fondale per non pregiudicare la riuscita dell’operazione. In caso contrario si procede con la risalita e il carico sull’imbarcazione. Questo passaggio segna la fine del lavoro in acqua e l’inizio delle operazioni in superficie.

Il lavoro in superficie: le attività di laboratorio

Le modalità di recupero variano a seconda del materiale rinvenuto. Reti, involucri protettivi a tenuta stagna, palloni di sollevamento sono ampiamenti utilizzati. All’interno delle imbarcazioni di appoggio i reperti non possono essere lasciati al caso. Una squadra che si occupa di recupero di materiali in ambiente sottomarino sa che è necessario tenere ciascun reperto separato, secondo uno schema a quadri o mosaico. Con il successivo trasporto in sacche numerate comincia l’attività in laboratorio dove

  • Si procede al lavaggio e alla dissalazione in acqua dolce.
  • Si dispongono resti degli scavi subacquei in apposite cassette numerate, recanti quadrato di scavo e numero di unità stratigrafica.
  • Si avvia la fase detta di schedatura, per classificare, datare e descrivere nel dettaglio il singolo reperto.

La descrizione dei reperti non è fine a sé stessa, ma utile per una successiva fase di confronto con il materiale rivenuto presso altri siti.

Verso nuove consapevolezze

La tecnologia è importante per il ritrovamento e il recupero. Eppure, malgrado lo sviluppo di nuovi metodi e strumenti più sofisticati, la conservazione dei rinvenimenti è una questione complessa. Negli anni chi si occupa di scavi subacquei ha acquisito una nuova consapevolezza, legata a tempi e costi che sostengono l’intera filiera. Dal recupero alla musealizzazione, passando per il trasporto e le indagini di laboratorio, sempre più archeologici propendono per la conservazione dei reperti in fondo al mare. Documentano il sito archeologico e poi decidono di ricoprirlo, in modo da evidenziare e diffondere quanto scoperto. Ciò che trovano o scoprono, quindi, resta sul fondo del mare. Quasi sempre per lo sforzo logistico ed economico richiesto. O magari perché, talvolta, il mare semplicemente reclama ciò che gli appartiene.